Oggi c’è stato un violento terremoto nel reatino che ha spazzato via paesi e ucciso persone. C’è chi si indigna se si parla d’altro, come se parlare esclusivamente del terremoto fosse una reale forma di rispetto mentre fare il proprio lavoro, nel mio caso quello del blogger, o continuare a vivere la propria vita, tolga qualcosa alla tragedia. C’è qualcosa che non va: parlare di televisione, di calcio, di politica, di gossip, o semplicemente ridere con gli amici e passare dei momenti di serenità non significa snobbare l’argomento, essere degli egoisti insensibili, insultare i parenti delle vittime, significa andare avanti. Ognuno vive la tragedia a suo modo (certo, io eviterei di farmi i selfie di fronte alle macerie o mettere una foto posata su Facebook mentre scrivo un messaggio sull’argomento) e la supera con tempistiche differenti.
Il problema è un altro, non sono io che scrivo di facezie mentre volontari e soccorritori stanno realmente facendo qualcosa per questa gente e persone di buon cuore si offrono di dare ospitalità agli sfollati. Il problema di base è il buonismo diffuso, il rituale del cordoglio, le lacrime di coccodrillo di quelli che concretamente non fanno nulla: quelli sono atteggiamenti che sanno di presa per il culo, perché capitano sovente solo quando ci sono le tragedie più veicolate mediaticamente (perché se fossero morte lo stesso numero di persone in Senegal oggi in Italia si parlerebbe solo dell’eliminazione della Roma dalla Champions).
Il lutto a comando, quello che ti porta a riciclare la frase ad effetto di disastri precedenti per ottenere qualche like in più su Facebook, è tanto utile quanto mostrare in tv le foto di bambini o gli zainetti in mezzo alle macerie (come se ci fossero morti di serie A e morti di serie B), invece di affrontare seriamente il problema, facendo domande ed esigendo di avere delle risposte.
Il lutto a comando è come una forte scossa di terremoto: dopo che è passato non rimane nulla.